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INTERVISTA ALL’AUTORE GIANNI CLEMENTI.

Di Simonetta Soliani

 

Soliani: Cos’è per Lei la scrittura?

 

Clementi: E‘ la mia grande passione. Ho cominciato per caso la mia avventura nel 1986, quando un’attrice, mia grande amica, Daniela Giordano, mi propose, con una certa dose d’incoscienza, di scrivere un testo che avrebbe dovuto rappresentare al Festival d’Asti. Lo feci, il titolo era “Al Tabou de Saint Germain des pres”, andò bene, grazie soprattutto alla sua interpretazione, e riesplose la mia sopita passione per il teatro. Sopita da quando, studenti liceali presso il Dante di Roma, avevamo iniziato a fare teatro con un gruppo di amici, fra cui Daniela Giordano per l’appunto, Massimo Wertmuller, e tanti altri. Quasi tutti avevano proseguito fino ad affermarsi a vario titolo come attori o registi, io invece avevo abbandonato, essendomi dedicato ad altre attività. Ma una passione quando esiste fa presto a riaccendersi e così avvenne per me. Da quel fatidico giorno del 1986 ho proseguito a scrivere e posso contare a tutt’oggi una quarantina di commedie all’attivo, quasi tutte rappresentate. Ho avuto anche la fortuna e l’onore d’essere tradotto e rappresentato all’estero: in Svizzera, Francia, Spagna, Austria, Grecia, Russia. Vivere della propria passione è il regalo più grande che si possa ricevere. Una passione totalizzante, che ti rende curioso e vivo ogni giorno di più. Nel mio biglietto da visita c’è una frase di Conrad che sintetizza, con una brillantezza invidiabile, il mestiere di scrittore: “Come faccio a spiegare a mia moglie che quando guardo fuori dalla finestra sto lavorando?”

 

Soliani: Se si scorre la Sua bibliografia si scoprono titoli come: “Ma che bell’Ikea”, “Grisù Giuseppe e Maria”, “Finchè vita non ci separi” …insomma si ride già leggendo il titolo. Ma non ha iniziato con commedie, tantomeno con scrittura applicata allo spettacolo….

 

Clementi: Io mi reputo assolutamente un autore drammatico, adoro la tragedia. E’ vero anche come nelle storie più “serie” che ho scritto c’è sempre una vena ironica. La prima produzione importante fu, nel 90, “Maligne congiunture”, una storia tragicissima di quattro donne, prodotta dal Teatro Stabile di Calabria. In un testo così drammatico c’erano comunque i primi germi di un’ironia che coltivai in seguito fino trovare una mia identità d’autore nel genere tragicomico. Infatti le mie commedie, anche le più dichiaratamente comiche, hanno sempre un fondo di amarezza. Dico sempre che per parlare di argomenti importanti, bisogna far sedere lo spettatore a tavola con gli attori. Io è con la risata che li faccio mettere a tavola, li rassicuro. Quando sono rassicurati, rilassati, allora meno, colpisco. E a loro piace. Se colpisci prima, a freddo è difficile renderli poi tuoi complici.

 

Soliani: „L’Ebreo “nel 2007 ha vinto il premio SIAE.AGIS.ETI. Com‘è nata la storia narrata in questo pezzo?

 

Clementi: Da un trafiletto di giornale che ricordava come, nel 1938, con l’emanazione in italia delle leggi razziali, molti Ebrei, presagendo l’imminente sciagura, per non lasciarsene espropriare, decisero di intestare a dei prestanome, spesso loro impiegati o addirittura uomini di fatica, le loro proprietà: negozi, appartamenti, attività artigianali e industriali, con la tacita intesa di rientrarne in possesso non appena passata la tempesta. Purtroppo, come la Storia insegna, non si trattò di una semplice tempesta e molti non fecero ritorno dai campi di sterminio. Questo è stato lo spunto da cui sono partito.

 

Soliani: Perchè la scelta dei dialoghi in „romano“ ?

 

Clementi: Ho dedicato gran parte del mio percorso d’autore all’uso del “romano” in teatro. Operazione rischiosissima e soggetta di partenza a forti pregiudizi, spesso, se vogliamo, anche giustificati, per l’uso volgare e spregiudicato che si è fatto del “romano” in films di quart’ordine e cabaret televisivi. Al contrario, ho sempre pensato che il “romano”, se usato nel modo giusto, sia una forma espressiva straordinaria in termini poetici e narrativi. Ho iniziato tanti anni fa con “Il cappello di carta”, prodotto dal compianto Maestro Ettore Scola, ed il risultato fu talmente straordinario, da rafforzare il mio convincimento. Tant’è che ho scritto molte commedie (o meglio tragicommedie), partendo dagli anni ’40 ed arrivando ai nostri giorni, usando un “romano” popolare e moderno, che si ispira, almeno nelle intenzioni, al grande cinema italiano del dopoguerra. E’ stato per me un grande orgoglio, quando un Professore dell’Università Roma3 ha proposto ad una studentessa di redigere la sua tesi sul mio uso teatrale del „romano“. Per l’Ebreo, in particolare, ambientato nel Ghetto di Roma non potevo che usare un linguaggio sanguigno e popolano.

 

 

 

Soliani: Sicuramente il titolo in Germania susciterà reazioni particolari rispetto all‘Italia. Cosa si deve aspettare il pubblico?

 

Clementi: Una storia di poveri cristi, sopraffatti dalla Storia, con la S maiuscola. La Storia ha fatto tante vittime, ma ancora di più ha lasciato ferite profonde nei sopravvissuti. Non tutti sono in grado di metabolizzare disgrazie o fortune. Non a caso c’è chi vince alle superlotterie incredibili cifre e le sperpera in breve tempo. O chi non riesce ad elaborare lutti per tutta la vita. Insomma, l’Ebreo è una storia di persone alle prese con qualcosa di troppo grande, di ingestibile. Sono curioso di verificare le ricadute che potrà avere il testo in Germania, coprotagonista, volente o nolente, di questa mia storia.

 

Soliani: Dal 2009 al 2011 „L’Ebreo “è stato portato in teatro in Spagna, Francia, e anche a Roma con la partecipazione di Ornella Muti nelle vesti di Immacolata. Come sono state le reazioni del pubblico nei diversi paesi?

 

Clementi: Anche in Grecia. Debbo dire che le reazioni dei diversi pubblici alle varie latitudini sono state pressocchè unanimi. Molto divertimento, condito da profonde riflessioni su una pagina della Storia tanto agghiacciante. L’Ebreo è una commedia ma tinta indissolubilmente di nero.

 

Soliani: Qual’è il ruolo dell‘ autore nella società?

Clementi: Credo che un autore debba tentare d’essere un testimone del suo tempo. Il grande Cesare Zavattini consigliava agli scrittori/sceneggiatori di prendere l’autobus. E’ anche vero che attingere dal quotidiano in Teatro è sempre molto rischioso, perché il rischio della banalizzazione è dietro l’angolo, ciò non toglie che parlare delle cose che conosciamo e condividiamo giornalmente aiuta molto ad entrare in empatia con lo spettatore. E’ il nostro inconscio che deve stupirsi per primo del sorriso involontario a sottolineare i nostri stessi difetti, vizi e manie, altrimenti difficilmente accettabili. Quindi autobus a vita!

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